mercoledì 23 febbraio 2011

NEL NOME DELLA RIVOLTA

"Quando arrivi in cima puoi solo scendere": in effetti questa notizia "rischia" di diventare il punto più alto per quanto concerne la psicosi collettiva che caratterizza un po' (un po'?) l'uso tipico di Facebook nei quattro angoli del pianeta. La notizia è di ieri: un uomo ha deciso di chiamare sua figlia Facebook. No, sul serio, è vero. Detta così la notizia può far correre terribili brividi dietro la schiena di molti, ma è bene specificare il dove, il quando, il perché: solo così la vicenda assumere un valore (ben) diverso.
Non mi sento di condannare pienamente la scelta, perché dietro questo gesto c'è una motivazione decisamente valida: la neonata prende il nome del vostro social network preferito in onore del ruolo assunto da Facebook (insieme a Twitter) nella recente rivolta egiziana. Da quelle parti, insomma, i concetti di libertà di espressione e di comunicazione non sono propriamente le cose più semplici da attuare, e spesso accade che proprio questi mezzi gratuiti e virtuali diventino uno straordinario mezzo di diffusione di idee, ideali e democrazia che i governi sono costretti a combattere con misure drastiche per non permettere che il mondo si accorga di ciò che accade. D'altronde non è la prima volta che Facebook è apertamente osteggiato per fini politici: questo non solo fa capire l'importanza che ha assunto questo strumento per la comunità globale, ma fa anche intendere che molto spesso per fronteggiare alcune situazioni molto ma molto lontane dalle nostre (e forse non ci accorgiamo di quanto diverse siano dalle nostre) si fa un uso davvero utile del mezzo. In altre parole: viva l'uso serio di questi strumenti, per motivazioni davvero utili e non per il consueto cazzeggio quotidiano. Facebook in Libia, in Algeria, in Egitto hanno un vero perché, e magari serviranno per far crescere in libertà una, cento, mille Facebook Jamal Ibrahim.

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